La carne sintetica (denominazione assolutamente impropria), più correttamente definita come carne coltivata, è un prodotto alimentare innovativo che mira a replicare le caratteristiche nutrizionali e organolettiche della carne tradizionale, prodotta in laboratorio attraverso tecniche di biotecnologia.
Le decisioni prettamente politiche che hanno portato l’Italia a essere il primo paese in Europa a introdurre il divieto di produzione, ma non di importazione (che non è applicabile), hanno fatto tornare il dibattito (e i dubbi) sulla carne coltivata, che è salita nuovamente in cima alle discussioni.
Mettendo da parte le opinioni legate in modo esclusivo a implicazioni politiche, è possibile analizzare alcuni dettagli per formarsi un’idea sulla base di elementi scientifici certi, e non sulla consueta mancanza ignoranza in materia.
Caratteristiche e produzione della carne sintetica
La carne sintetica (che sintetica non è) è creata a partire da cellule animali ed è caratterizzata da:
- Composizione: simile alla carne convenzionale in termini di proteine, grassi e nutrienti.
- Aspetto e gusto: gli sviluppi recenti hanno permesso di ottenere prodotti che assomigliano visivamente e nel gusto alla carne da allevamento.
- Variazioni: può essere prodotta in diverse forme, come hamburger, bistecca ecc., a seconda delle tecniche utilizzate.
Il processo di produzione della carne sintetica coinvolge diversi passaggi:
- Selezione e prelievo delle cellule: vengono selezionate cellule specifiche e prelevate da un animale.
- Coltura cellulare: le cellule vengono nutrite e coltivate in un ambiente controllato, all’interno di un bioreattore.
- Sviluppo: le cellule si moltiplicano e si differenziano in fibre muscolari e altri tipi di cellule presenti nella carne.
- Formazione del tessuto: le cellule formano un tessuto analogo alla struttura della carne.
- Raccolta e lavorazione: il tessuto viene raccolto e lavorato per ottenere il prodotto finale.
La carne coltivata non contiene ovviamente trattamenti farmacologici come ormoni e antibiotici, tipicamente impiegati negli allevamenti (talvolta a puro scopo preventivo), ma è un prodotto ottenuto da cellule staminali animali coltivate in laboratorio, e fatte crescere su un terreno ricco di nutrienti per effetto di un processo totalmente normale e fisiologico. Pertanto non ha alcun presupposto per poter essere definita “sintetica”, se non il tentativo di creare una percezione legata a termini che, nella comune accezione destano un senso di preoccupazione, come accade per “artificiale”, “chimico”, ecc. Impiegare il termine “carne sintetica” per screditarne le caratteristiche e alimentare le fobie, è un’evidente strumentalizzazione, utilizzata da chi è palesemente ignorante o in malafede. Parimenti chi sbandiera presunte intenzioni di sostituire la carne da allevamento con la carne coltivata, o di imporne l’utilizzo. Nulla di tutto questo è né nelle intenzioni né nelle possibilità di alcuno, neppure in un futuro ipotetico.
Le cellule prelevate al fine dalla produzione di carne, inizialmente non specializzate, si differenziano in cellule muscolari, costituendo il tessuto che forma il prodotto finale. Il bioreattore che consente l’intero processo è uno strumento già impiegato nella produzione di altri alimenti, e consente di mantenere un ambiente controllato e nutrire le cellule durante la loro crescita.
I bioreattori sono dispositivi che permettono la coltivazione di cellule, tessuti, o microrganismi in un ambiente controllato trovando impiego in vari settori, tra cui quello alimentare. Ad esempio la produzione di latte e derivati (come formaggio e yogurt), di integratori proteici, bevande fermentate, ecc.
Dal punto di vista della sicurezza alimentare la carne coltivata non rappresenta un rischio per la salute umana, e in Europa rientra nella classificazione dei “novel food”, quindi soggetta ai rigorosi controlli che coinvolgono gli altri prodotti affini.
La (inapplicabile) legge che vieta la carne… mette fuori legge vino e yogurt!
Il 16 novembre 2023 la camera, con 159 voti a favore, 53 contrari e 34 astenuti, ha dato il via al disegno di legge che ha per oggetto la carne coltivata. Al momento si tratta tuttavia di un provvedimento inapplicabile per un prodotto non disponibile, e che non risulta neppure autorizzato dalla Commissione Europea. Al netto di considerazioni specifiche, appare evidente che vietare qualcosa di non autorizzato e non disponibile, non può che essere mera propaganda. Manca inoltre la notifica all’Unione Europea ai sensi della procedura per le regolamentazioni. Nel caso in cui vi fosse una futura autorizzazione da parte della Commissione Europea, il provvedimento sarebbe in ogni caso nullo in quanto in contrasto col principio di libera circolazione delle merci. Traducendosi esclusivamente in una penalizzazione per gli imprenditori italiani.
Volendo ignorare tutto quanto sopra (che ignorabile non è), e ipotizzando l’applicazione della legge così come presentata, il risultato sarebbe in realtà paradossale. Leggendo testualmente un passaggio si nota infatti che riporta tra l’altro “è vietato agli operatori del settore alimentare e agli operatori del settore dei mangimi, impiegare nella preparazione di alimenti, bevande e mangimi, vendere, detenere per vendere, importare, produrre per esportare, somministrare oppure distribuire per il consumo alimentare, ovvero promuovere ai suddetti fini alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati.”
Prendendo alla lettera (come si fa per le leggi) il passaggio che vieta alimenti prodotti a partire da colture cellulari, occorrerebbe quindi vietare anche tutti i cibi frutto di fermentazioni, che altro non sono che prodotti a partire da colture cellulari. Al bando quindi vino, yogurt, birra e non solo!
Sicurezza alimentare e plausibilità biologica
I principali timori riguardano la sicurezza alimentare, in questa ottica occorre segnalare che, affinché possa essere preso in considerazione un rischio, occorre vi sia quella che è definita una plausibilità biologica. I rischi per la sicurezza alimentare infatti, possono derivare da tale aspetto o da una eventuale possibile contaminazione (analizzata di seguito).
La plausibilità biologica si riferisce alla coerenza di una relazione osservata (ad esempio, tra un fattore di rischio e un esito sanitario) con il corpo attuale di conoscenza biomedica. In altre parole, una relazione di rischio può essere considerata biologicamente plausibile se è coerente con ciò che è noto circa i meccanismi biologici e fisiologici. Questo concetto è fondamentale in epidemiologia, tossicologia, e in generale nella ricerca scientifica per validare ipotesi o scoperte, ma anche per avviare indagini specifiche.
Per parlare di plausibilità biologica, occorre quindi che vi siano:
Meccanismi biologici conosciuti: La relazione osservata deve adattarsi ai meccanismi biologici e fisiologici noti. Se una relazione osservata contraddice le conoscenze biologiche esistenti, la sua plausibilità biologica viene messa in dubbio.
Evidenza sperimentale: Studi sperimentali, come quelli condotti in vitro o su modelli animali, possono fornire prove dirette dei meccanismi biologici sottostanti un rischio osservato.
Coerenza con altre ricerche: La plausibilità biologica è rafforzata se diverse linee di ricerca (epidemiologica, clinica, sperimentale) indicano lo stesso meccanismo o risultato.
Per fare un esempio banale, ipotizzare uno studio che verifichi se il consumo delle uova di gallina possa incidere con i capelli bianchi, difetta a monte di plausibilità, al contrario ipotizzare che vi possa essere una relazione tra il consumo di uova e i livelli di colesterolo ha un senso. Naturalmente il fatto che vi sia plausibilità, proprio come nel caso delle uova e dei livelli di colesterolo, non solo non significa automaticamente che l’ipotesi di partenza è vera, ma potrebbe perfino emergere l’esatto opposto. Nel caso specifico ad esempio il consumo di uova in modo idoneo, dove per idoneo si fa riferimento non solo alla frequenza e alla quantità, ma anche ai metodi di cottura, ha effetti positivi sui livelli di colesterolo totale, e non il contrario (malgrado quanto molti ancora ritengano).
Casi di plausibilità biologica con ipotesi confermata sono ad esempio:
Fumo e cancro ai polmoni: la relazione tra fumo e cancro ai polmoni è biologicamente plausibile perché è supportata da ampie conoscenze sui danni cellulari e mutazioni causate dai composti cancerogeni nel fumo di sigaretta. L’ipotesi è confermata da ampi studi epidemiologici.
Dieta ricca di grassi e malattie cardiovascolari: La plausibilità biologica qui deriva dalla comprensione dei processi di accumulo di lipidi nelle arterie e di come ciò può portare a aterosclerosi, ipertensione e malattie cardiache. Anche in questo caso l’ipotesi di partenza è confermata dagli studi epidemiologici.
Nel caso della carne coltivata, trattandosi in tutto e per tutto di carne ottenuta mediante replicazione di cellule, esattamente come avviene in un organismo animale, manca a monte la plausibilità biologica o, più nel dettaglio, manca l’ipotesi che il consumo di carne coltivata possa essere più pericoloso rispetto al consumo di carne da allevamento.
Nella valutazione della plausibilità biologica di una relazione di rischio devono quindi essere considerati numerosi aspetti:
Specificità: Un meccanismo specifico che collega direttamente il fattore di rischio all’esito aumenta la plausibilità.
Temporaneità: La causa deve precedere l’effetto in modo cronologico.
Gradiente dose-risposta: Una relazione dose-risposta coerente, dove aumenti del fattore di rischio corrispondono ad aumenti dell’esito.
La plausibilità biologica è cruciale per distinguere le relazioni causali da quelle che potrebbero essere semplicemente correlazioni casuali, ed è inoltre determinante per compiere scelte di salute pubblica sulla base di evidenze scientifiche. Se le scelte esulano da un simile processo di verifica, le ragioni sono differenti (economiche, politiche, lobbystiche, ecc.). La plausibilità biologica è una componente chiave nella valutazione del rischio e nella formulazione di raccomandazioni in campo sanitario e ambientale.
Rischio di contaminazione
Il timore che la produzione di carne coltivata possa esporre a maggiori probabilità di contaminazione rispetto alle classiche produzioni animali è infondata. Tuttavia è una delle leve utilizzate nelle campagne allarmistiche rilanciate ad hoc sui social. Il rischio zero purtroppo e ovviamente non esiste in alcun ambito, ma questo non implica che questo processo di produzione sia intrinsecamente caratterizzato da una maggiore probabilità di contaminazione. Anzi, tutto lascerebbe ipotizzare l’esatto contrario.
Del resto, in termini di contaminanti, è oramai noto a tutti quanto siano da limitare alcuni prodotti ittici per la grande presenza di metilmercurio e microplastiche, così come tristemente noti sono i casi di encefalopatia spongiforme bovina (BSE o comunemente definita “morbo della mucca pazza”), o le decine di richiami di prodotti alimentari a base di carne, operati proprio per contaminazioni fisiche o biologiche (meglio dettagliate di seguito).
La BSE in particolare fa parte delle Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili, è causata dai prioni: forme alterate della proteina prionica, che si accumulano a livello cerebrale e causano la morte dei neuroni. Le encefalopatie spongiformi trasmissibili si distinguono per la loro lunga incubazione e per la capacità di infettare altri individui proprio per mezzo dei prioni, rendendo questo gruppo di malattie le uniche trasmissibili per contagio nel novero delle malattie neurodegenerative. Tristemente nota è l’emergenza sanitaria che si ebbe a cavallo degli anni 2000, con le relative e successive norme finalizzate a contenere ed evitare nuove analoghe situazioni.
Restando nell’ambito degli allevamenti animali non mancano circostanze analoghe per quanto riguarda gli allevamenti di polli e l influenza aviaria, non va meglio per quanto attiene gli allevamenti di maiali e la peste suina (malattia virale ad alta contagiosità), né sono risparmiati gli allevamenti di animali acquatici, dai pesci ai mitili.
Non di meno il rischio di salmonella (batterio responsabile di infezioni gastrointestinali) legato al consumo di alimenti contaminati di origine avicola, comprese le uova o la carne di maiale
Il tutto al netto di specifiche frodi che incrementano ulteriormente i rischi igienico sanitari.
Pertanto non si può ritenere la coltivazione della carne intrinsecamente a rischio, ma all’interno di un processo che necessita e merita la medesima attenzione oggi riservata ad altre produzioni animali.
Ricapitolando, le tipologie di contaminazione dei prodotti alimentari possono essere di tipo fisico, chimico, e biologico.
Le contaminazioni fisiche riguardano la presenza di corpi estranei di qualunque natura all’interno dell’alimento e possono verificarsi in una o più fasi della filiera, dalla raccolta – produzione al confezionamento. Non vi sono elementi che possano lasciar supporre un rischio maggiore nel caso in esame.
Le contaminazione chimiche possono essere naturali: se riguardano la presenza di sostanze tossiche o nocive naturalmente presenti negli alimenti; intenzionali: nel caso di aggiunta agli alimenti di sostanze previste nei processi di produzione, come gli additivi; involontarie: per esempio a causa residui di pesticidi e farmaci ad uso veterinario; ambientali o in fase di processo: per la presenza di fattori estranei all’alimento provenienti dall’ambiente che lo circonda o dalle superfici con cui entra in contatto. Anche per questa tipologia di contaminazione non vi sono elementi che possano far pensare a maggiori o specifici rischi nella produzione di carne in bioreattori.
Le contaminazioni biologiche son quelle più frequenti nell’ambito alimentare, sono causate da virus, batteri, funghi o altri parassiti. Sono quelle già precedentemente esaminate in questa sede, e col maggior numero di esempi che lasciano facilmente intuire come siano frequenti e rischiose per ogni allevamento animale, non per questo non individuate, controllate e circoscritte.
Sotto il punto di vista delle più frequenti categorie di contaminanti, la carne coltivata presenta probabilmente il più alto livello di sicurezza dal momento che è assoggettata ad un iter specifico caratterizzato da:
Controllo delle contaminazioni: La produzione in laboratorio riduce il rischio di contaminazioni batteriche come E. coli o Salmonella.
Standard di qualità: deve aderire agli stessi standard di sicurezza alimentare delle carni tradizionali.
Valutazione da Enti regolatori: Prima di essere commercializzata, la carne sintetica deve essere valutata e approvata dagli enti regolatori come la FDA negli Stati Uniti o l’EFSA in Europa.
I rischi per la salute dati dal consumo di carne
Nel mentre tutti sembrano preoccupati del rischio derivante dalla carne sintetica, appositamente denominata in questo modo (va ribadito) da chi ha interesse a generare allarmismo o da chi non ha le competenze per comprendere cosa implica, ci si dimentica dei rischi legati alla carne in generale e al suo consumo eccessivo o basato su carni lavorate industrialmente.
Nell’ultimo decennio infatti, numerose ricerche hanno esplorato la correlazione tra il consumo eccessivo di carne animale e carni lavorate e l’incidenza di diversi tipi di tumori. La carne animale fa riferimento alla carne rossa (manzo, maiale, agnello, ecc.) e carne bianca (pollo, tacchino, coniglio, ecc). Le carni lavorate si riferiscono ai processi di trasformazione che prevedono salatura, stagionatura, affumicatura, o aggiunta di conservanti, ad esempio salumi, salsicce, ecc.
Gli studi epidemiologici hanno mostrato un aumento del rischio di tumori, in particolare il cancro del colon-retto, associato al consumo elevato di carne rossa e carni lavorate.
Nel 2015, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato le carni lavorate come “cancerogene per l’uomo” (Gruppo 1) e la carne rossa come “probabilmente cancerogena per l’uomo” (Gruppo 2A), raccomandandone un uso parsimonioso. I meccanismi coinvolti in questo tipo di rischio sono differenti, fra questi è possibile segnalare:
Composti nocivi durante la cottura: La cottura ad alte temperature può portare alla formazione di ammine eterocicliche e idrocarburi policiclici aromatici, noti per le loro proprietà cancerogene.
Nitriti e nitrati: Utilizzati come conservanti nelle carni lavorate, possono trasformarsi in composti potenzialmente cancerogeni (processo descritto successivamente nel dettaglio).
Ferro eme: Presente in abbondanza nella carne rossa, è stato associato all’incremento del rischio di cancro attraverso la formazione di composti nocivi nel tratto intestinale.
Le carni lavorate, e talvolta anche il pesce o i formaggi, sono praticamente sempre addizionate con nitriti (indicati in etichetta con le sigle E251, nitrato di sodio; E252, nitrato di potassio) e nitrati (indicati in etichetta con le sigle E249 nitrito di potassio, E250 nitrito di sodio) con lo scopo di migliorarne l’aspetto, il gusto e la conservabilità. La presenza di questi additivi, e in particolare l’ingestione di nitriti, è senza ombra di dubbio correlata all’incidenza del cancro allo stomaco. Si stima che il consumo quotidiano di 80 g di carni lavorate sia sufficiente a determinare un’impennata del rischio. Non si comprende, tra chi obietta che la carne coltivata sia “artificiale”, come sia possibile trovare naturalmente nelle carni lavorare la lista di additivi indicata.
Per queste ragioni le linee guida dietetiche raccomandano di limitare il consumo di carne rossa e lavorata per ridurre il rischio di tumori, e si consiglia contestualmente di evitare la cottura ad alte temperature e preferire metodi di cottura più idonei. Al netto del rischio tumorale, l’eccesso proteico in generale, e di carne nello specifico, espone anche ad altri potenziali problemi, per questo diverse organizzazioni sanitarie suggeriscono di limitare il consumo di carne rossa a 70-100 grammi al giorno e di carni lavorate a una quantità ancora inferiore, prediligendo carni magre e bianche (pollo, tacchino) rispetto alle carni rosse e lavorate. Al contrario i dati sul consumo evidenziano non solo una introduzione nettamente superiore in Italia, ma proprio per la tanto decantata tradizione culinaria, si privilegia proprio il consumo di carne rossa e lavorata, anche per le fasce più giovani della popolazione, che sovente introducono wurstel, hamburger, salumi, ecc.
Tutto questo senza che alcun politico ritenga di intervenire per porre un freno in nome della salute pubblica, perlomeno di giovani e giovanissimi.
Implicazioni etiche e ambientali
E’ significativo, e per alcuni tratti imbarazzante, come comunemente chi paventa rischi ipotetici e privi di plausibilità legati alla carne coltivata, e per la quale usa l’impropria definizione di “carne sintetica”, sia solitamente appartenente al medesimo gruppo di chi contesta numerosi altri elementi scientificamente comprovati, dal cambiamento climatico e il ruolo dell’uomo su tale fenomeno, ad altri ambiti più squisitamente medici. E contestualmente individui minacce in elementi legati al mero complottismo, come le scie chimiche, i sistemi di comunicazione 5g, ecc.
Tralasciando per un istante le questioni etiche, che rientrano nell’ambito della soggettiva percezione, è innegabile l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, non solo per quanto riguarda il consumo idrico e del territorio, ma anche per quanto riguarda le emissioni di inquinanti. L’allevamento di bestiame determina da solo il rilascio del 18% del totale dei gas serra, che non sono solo la CO2 ma anche il metano (CH4) derivante dalla fermentazione enterica, e l’ossido nitroso (N2O) derivante dal letame e dalle urine che, in termini di conseguenze sul riscaldamento ambientale sono rispettivamente 23 volte e 289 volte più impattanti.
Avere accesso a fonti alternative non sovverte il problema, ma certamente lo ridimensiona, e questo anche per quanto riguarda il consumo di acqua (circa 1500 litri per ciascun Kg di carne[1]) e di suolo. Si stima che il pianeta terra entro il 2050 sarà abitato da oltre 9 miliardi di persone, con risorse sempre più scarse in termini di terreni coltivabili, deforestazione, surriscaldamento e risorse idriche compromesse. Con una popolazione mondiale che continua ad aumentare, è inevitabile considerare un ulteriore e progressivo aumento della pressione sulle risorse ambientali, un incremento nell’uso di acqua, energia, terreno, ma anche un incrementato uso di fertilizzanti e prodotti farmacologici per promuovere la crescita degli animali e per ridurre in via preventiva eventuali epidemie. Tutti aspetti che impattano negativamente sulla salute dell’uomo, anche solo in termini di antibiotico resistenza, problema fortemente sostenuto dall’uso di farmaci in agricoltura e negli allevamenti.
L’allevamento bovino (secondo la FAO) utilizza il 70% delle terre destinate all’uso agricolo. È intuibile come l’ulteriore aumento demografico non possa che compromettere ulteriormente questi delicati equilibri già fortemente a rischio collasso.
Diviene inevitabile sul fronte ambientale ipotizzare l’accesso a risorse alternative e meno impattanti, in questa direzione la carne sintetica offre evidenti vantaggi anche sul fronte etico: richiede meno terra, acqua e produce meno emissioni di gas serra rispetto all’allevamento tradizionale ed evita la necessità di allevare e macellare animali.
[1] Spesso è possibile ritrovare numeri enormemente maggiori per la produzione della carne, poiché tengono in considerazione anche la quantità di acqua necessaria per coltivare le fonti alimentari utilizzate per l’allevamento, e quella persa per la naturale traspirazione delle coltivazioni. Tuttavia questa acqua, denominata green water e blue water, fa parte di un ciclo naturale, che non implica il suo reale “consumo” quanto una sua disponibilità.
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